Il mio nome è Ostasio, Ostasio II da Polenta.

Sono Ostasio II da Polenta, signore di Ravenna, imprigionato in una lapide nella chiesa di San Francesco. E’ il fato che ha deciso che dovevo essere raffigurato con il saio su una lastra di marmo rosso di Verona, con il viso e le mani scolpite in marmo bianco per accentuare la trasformazione del mio essere in un oggetto funebre. Io grande condottiero addestrato alle armi fin da piccolo, Io che ho comandato in battaglia molti cavalieri, abituato a cavalcare con pesanti corazze, maestro con la spada e la picca, avrei voluto essere raffigurato da morto in ben altra maniera, magari in un grande affresco che celebrasse le mie battaglie, che mi proiettasse nel mondo degli eroi. Invece il destino mi ha riservato una sorte diversa. Sono stato sconfitto nella battaglia di Castagnaro dove al fianco di Giovanni Ordelaffi ho guidato le truppe di Verona contro quelle di Padova. Ho perso la battaglia che avrebbe potuto donarmi l’immortalità dovuta agli eroi, la battaglia dove avrei accettato anche la morte in cambio della vittoria. Ma visitatori che guardate in maniera distratta questa pietra tombale, permettetemi di raccontarvi la verità su come sono andate le cose. Il mio è stato un tempo di continue guerre fra i comuni per annettere nuove porzioni di territorio. Le battaglie erano frequenti e le varie Signorie assoldavano capitani di ventura per guidare le truppe nelle guerre. Io Ostasio, in quegli anni, guidavo le armate di Ravenna a fianco e agli ordini di mio cognato Antonio della Scala signore di Verona, alleato con i Veneziani e i signori di Udine. I Veneziani avevano chiesto il nostro aiuto per cercare di bloccare le mire espansionistiche di Francesco da Carrara signore di Padova a sua volta alleato con i Visconti, signori di Milano. Numerose le battaglie combattute, dove i Padovani cercarono invano di conquistare importanti comuni friulani. Dopo un periodo di stallo, riprendemmo la guerra riuscendo ad arrivare fino alle porte di Padova, ma i Padovani frenarono la nostra avanzata e ci costrinsero alla ritirata. Questa vittoria rese euforici i signori di Padova e quindi l’anno seguente decisero di attaccare Verona. La battaglia decisiva è stata combattuta nella zona di Castagnaro. Io Ostasio II da Polenta con Giovanni Ordelaffi eravamo al comando delle truppe Veronesi e Veneziane mentre le truppe di Padova erano sotto il comando del grande condottiero inglese Giovanni Acuto e di Francesco Novello da Carrara, figlio del signore di Padova. Sappiate che è stata una delle più grandi battaglie all’epoca dei capitani di ventura. Era il 11 marzo del 1387, avevo ai miei ordini diretti 1500 cavalieri, e quando la battaglia ebbe inizio lanciammo le nostre armate contro il nemico che incominciò ad indietreggiare. La battaglia sembrava volgere nettamente a nostro favore e Io e l’Ordelaffi pensammo di avere in pugno la vittoria. Invece fu una ritirata strategica voluta da Giovanni Acuto per attirarci su un terreno acquitrinoso. Fece smontare da cavallo i cavalieri della sua Compagnia Bianca, così chiamata perché i cavalieri indossavano una armatura lucente, e li sistemò su un terreno asciutto e ai lati dispose i balestrieri, gli arcieri, e i cannoni. Noi avanzammo ma perdemmo tempo a riempire un canale, che ci separava dai nemici. Quando riprendemmo la marcia gli arcieri di Acuto incominciarono a colpirci con le frecce che uccisero molti nostri uomini mentre i suoi soldati frenavano la nostra avanzata. Le nostre truppe furono prese dal panico e si disunirono. L’Acuto diede allora l’ordine ai suoi cavalieri appiedati di attaccarci e questi si aprirono un varco nelle nostre file. Fu la nostra fine, ormai padroni del campo i padovani uccisero o catturarono la maggior parte di nostri soldati. Eravamo stati sconfitti da Giovanni Acuto che con la sua strategia rivoluzionaria consegnò la battaglia alla storia. L’utilizzo degli arcieri, la finta ritirata e il far scendere i cavalieri da cavallo evitando l’uccisione degli animali, gli permise di disporre di una formazione di guerrieri che avanzavano fianco a fianco e formavano una forza d’urto straordinaria. Io riuscii a riparare a Ravenna dove due anni dopo divenni legato papale. Invece la fama che Giovanni Acuto aveva di essere il migliore capitano in Italia risultò confermata. Adesso è raffigurato nell’affresco di Paolo Uccello nella cattedrale di Santa Maria del Fiore in Firenze e la sua fama è giunta fino al cielo. Potete capire la mia tristezza. Ho combattuto, ho vinto molte battaglie, eppure per coloro che visitano questa chiesa Io sono un frate, non il signore di Ravenna, non il condottiero che ha combattuto la battaglia decisiva. Nessun grande pittore mi ha raffigurato in sella al mio cavallo, nessun scultore ha creato una statua equestre che racconti le mie gesta. Solo ai vincitori è permesso di superare l’oblio e di vivere una gloria imperitura. Visitatori di San Francesco in Ravenna ricordate la mia storia, la storia di un grande capitano di ventura.10257428_1425428951052820_4321235408044556211_n

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La sconfitta di Castagnaro segnò la fine della egemonia degli scaligeri che furono cacciati da Verona dalle truppe viscontee, ma fu una vittoria di Pirro per i signori Carrara di Padova che furono nel 1388 cacciati dai loro domini dai Visconti.

storia di un amore

I miei antenati hanno colonizzato questo mondo tre miliardi di anni fa. Una stella lo illuminava e gli inviava calore e noi siamo stati bravi a sfruttare questa luce, trasformarla in cibo, e nel contempo a produrre un gas che ha contribuito a formare l’atmosfera di questo pianeta. Il nostro mondo era un oceano d’acqua silenzioso con pochissime forme di vita. Come creatori abbiamo ascoltato lo scorrere del tempo, abbiamo visto questo mondo coprirsi di ghiacci, una immensa e unica distesa di ghiacci. Poi il tempo ha sciolto il ghiaccio e nel nostro mondo di acqua qualcosa è cambiato. Ci siamo evoluti e abbiamo visto il nostro sogno, ci siamo trasformati, siamo diventati degli esseri raffinati e perfetti. E noi che abbiamo vissuto un tempo infinito in solitudine abbiamo incominciato a vedere altre forme viventi. Come dei, nel volgere di milioni di anni alcuni di noi si sono trascinati fuori dall’acqua e hanno colonizzato la terra che affiorava, respirato l’aria e hanno incontrato nuove forme di vita. Una in particolare ha colpito l’immaginario dei miei progenitori: una specie capace di ricavare sostanze dal suolo, di rendere la terra abitabile a nuove forme di vita, una specie che non sapeva vivere nell’acqua ma comunque amava vivere in ambienti umidi e bagnati. E’ stato amore a prima vista. Il corteggiamento è durato migliaia di anni: loro ci offrivano del cibo che noi non eravamo in grado di produrre e noi procuravamo loro gli zuccheri essenziali per la loro vita. L’amore sottilmente ci ha sempre più uniti, abbiamo capito che non potevamo vivere senza di loro e un giorno abbiamo deciso che questo amore così travolgente, così profondo era per sempre. I nostri corpi si sono uniti, siamo diventati un unico organismo. Un nuovo essere ha visto il colore della luce, ha sentito il freddo, il caldo, ha saputo colonizzare tutto il pianeta, ha saputo frantumare le rocce e creare terreno fertile per altri organismi, ha permesso la nascita delle piante, dei pesci, degli uccelli dalle piume colorate, delle farfalle, delle rane che cantano alla luna, delle lucertole, dei leopardi, delle lucciole innamorate e per ultimi i creatori di sogni: gli uomini. Niente ha potuto fermarci. Noi nuovi costruttori di vita non siamo stati fermati dalla lava trasparente, da meteoriti, da vulcani, da fiumi di fuoco, da bolle di freddo. Forse sto peccando di superbia nel raccontare questa storia, ma scusatemi le storie d’amore non possono mai essere banali, le storie d’amore hanno bisogno di eroi, di luce, di buio, hanno bisogno di sogni, di solitudini, di tristezze, di gioie, di profondità. Ed Io sono il frutto di questa storia d’amore che dura da seicento milioni di anni e che non finirà fino a che questo mondo vivrà.
Torino 8/ 5/2014
I licheni sono organismi derivanti dall’associazione di due individui: un organismo autrotofo, un cianobatterio o un alga, e un fungo, in genere un ascomicete. I due organismi convivono traendo reciproco vantaggio: il fungo sopravvive grazie ai composti organici prodotti dall’attività fotosintetica dell’alga, mentre quest’ultima riceve in cambio protezione, sali minerali e acqua. Tale forma di vita viene chiamata simbiosi mutualistica.

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Sono un nobile signore. Il mio nome è Manfredo del Carretto. Il mio feudo è piccolo, comprende i castelli di Dego, Cairo e Cortemilia. Le gabelle che impongo alle merci destinate ai porti liguri non mi permettono di vivere nel lusso a cui la mia famiglia era abituata. È stato mio nonno Ottone a dilapidare le nostre ricchezze vendendo i diritti signorili su Savona e Noli. E’ per questo che sono qui sul campo di battaglia, con la mia corazza, il mio cavallo roano, la lancia, la spada alcuni miei armigeri e i miei pensieri. Fra poco le truppe del libero comune di Alessandria ci attaccheranno e io difenderò terre non mie. Sono passato da un campo all’altro in questi anni per poter mantenere i miei diritti e ho combattuto molte battaglie. Si sono un mercenario, ma sono stato sempre dalla parte dell’imperatore e combatto sotto le insegne ghibelline. Ho paura, sudo molto e il sudore inzuppa la maglia che indosso sotto la cotta, e penso che tutto potrebbe finire in un attimo. Il mio braccio è vigoroso, il mio corpo possente, le mie gambe scattanti, il mio cavallo mi ha sempre seguito in battaglia e non commette errori in combattimento. Ma la paura non mi abbandona. Paura del dolore, del sangue, paura di vedere le mie viscere, come serpenti, uscire dal mio corpo, paura di vedere le mie mani che tamponano ferite, paura che la mia testa rotoli sul campo di battaglia. La paura è una parte di me. Ho vicino altri cavalieri, sembrano sereni, credo che non abbiano paura. Invece io ho paura di perdere il ricordo di mia madre e le sue parole che mi accompagnavano di sera per farmi addormentare, i canti dei menestrelli durante i pranzi di corte, i miei primi innamoramenti. Io Manfredo ho cavalcato per piacere, per cacciare con cavalieri arditi, e il mio vestire bellissimo colorava boschi e campagne, così come la mia cavalcata piena di maestria come si conviene ad un nobiluomo. Capite nobili signori perché ho paura? Sono sempre stato diverso dagli altri uomini d’armi. Loro pensano solo al campo di battaglia, alla gloria, al vessillo issato sul torrione del castello conquistato, al rumore sordo delle lame che si incontrano, al sangue, ai contadini sgozzati, all’amore frettoloso e volgare con donne incontrate nelle campagne e violentate, o dame prese con forza con ancora la cotta addosso. No, sono diverso. Ho avuto un maestro di nome Rambaudo, mi ha insegnato a leggere testi antichi, ho ascoltato il suo poetare, il suo cantare composizioni di guerra ma anche d’amore, mi ha insegnato la poesia provenzale, mi ha parlato di terre lontane, mi ha insegnato ad amare il mare, con Lui ho cavalcato e ho imparato ad usare la spada. Perderò questo ricordo se una freccia, o una lancia, o una clava offenderanno il mio corpo. Il cavaliere al mio fianco si toglie l’elmo e beve dalla fiasca, il vino si mescola con i suoi umori, ride sguaiatamente e ci ricorda che stasera avremo dame a disposizione. Se tutto andrà bene voglio solo ritornare al castello di Olmo Gentile e vedere il volto della persona che amo. Si chiama Matilde ed è nata da un ramo cadetto della nostra famiglia, ha capelli biondi e gli occhi azzurri. Quando la guardo i suoi occhi sorridono, anche Lei ama la vita, il canto, la poesia ma anche i banchetti, la cacciagione, gli intingoli, le erbe dell’orto, i dolci, il vino. Lo stendardo sulla mia lancia l’ha legato prima della mia partenza. E’ rosso con un cerchio azzurro che racchiude un liocorno. La porterò sulle mura del castello a vedere le alte colline che circondano il cono su cui sorge il borgo e il maniero, le racconterò di come sono stato bravo in battaglia e di come il suo pensiero mi ha salvato dalle frecce del nemico e così assaggerò i suoi baci e le sue voglie d’amore, sentirò il fremere dei suoi sensi crescere e travolgere i miei pensieri e diventerò l’amante più felice della terra. Mentre questi pensieri mi avviluppano sento il grido di battaglia e le urla dei cavalieri. Lancio il cavallo al galoppo giù dalla collina, la mia picca si infila nello stomaco di un fante che voleva tagliare i tendini al mio animale, con la spada riesco a ferire un cavaliere che mi ha affiancato, sono circondato dal frastuono, dal puzzo della battaglia, dal rumore delle corazze, dalle urla dei feriti, getto a terra due armigeri, ma la freccia di una balestra colpisce il fianco del mio cavallo che si imbizzarrisce, quasi vengo disarcionato, gira in tondo poi si lancia verso le picche dei cavalieri nemici. Una lancia mi colpisce un fianco e vengo disarcionato. Forse sto morendo, vedo masse confuse, il dolore è insopportabile. Il sangue bagna il terreno. Un cavallo sta galoppando verso il mio corpo riverso. Lo percepisco dalla massa scura che avanza. O forse è la morte che sta arrivando. Adesso capite perché avevo paura. Sono l’unico cavaliere che in battaglia ha paura. Anzi che aveva paura. Non sento più dolore, la paura mi ha abbandonato, mi rimangono i pensieri d’amore per la mia dama, per le mie terre, per l’odore del fieno, per le nuvole in cielo, per le stelle, per il colore dei papaveri e dei fiordalisi, per i grappoli d’uva, per il vino. Dove andrò non ci sarà più la paura, la fame, le guerre. Solo il sorriso della mia Matilde. Sono un nobile signore, il mio nome è Manfredo del Carretto. Torino 5 maggio 2014

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                      Paolo Uccello: La battaglia di san Romano

omaggio a Chagall

La presi per mano e lentamente ci mettemmo a volare,
il cielo era blu e L’angelo ci coprì con le sue ali.
Il mazzo di fiori era soffice, ci cullava e la baciai.
Un gallo cantava, perché innamorato,
noi scendemmo a toccare il prato coperto di viole,
un violino suonava, le regalai una rosa,
baci umettavano le nostre labbra,
non uscivano parole, ma carezze leggere, piume,
cristalli di luce come gli sguardi che ci legavano.
E in cielo un asino ragliava, e un pesce volava,
l’angelo suonava solo per noi,
una ballerina danzava nel nostro circo fatto di sogni,
senza rumori, ma solo colori e quel blu del cielo
e quel gallo rosso per un pensiero.
E noi ancora li abbracciati a tenere lontano il tempo,
il futuro, aspettando una slitta, un mazzo di rose e
una colomba per guidarci nel nostro volo leggero.

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Il mio nome è Marsia

Mi chiamo Marsia e sono un satiro. Sono appeso ad un pino davanti alla grotta da dove nasce il fiume che prende il mio nome. Preciso: è la mia pelle e piccoli pezzi del mio corpo che sono appesi. Apollo, si proprio il dio Apollo, mi ha scorticato. Ed io che sono un semidio non posso morire fino a quando ci sarà qualcuno su questa terra che mi ricorda. Mi ha scorticato perché ho peccato di superbia. E’ questo che mi fa soffrire, il sapere di aver sbagliato. Ma lasciatemi raccontare cosa è successo prima di giudicarmi. Atena un giorno inventò uno strumento a fiato il flauto e prese a suonarlo. Il suono era meraviglioso e al termine di un banchetto su nell’Olimpo, Zeus pregò la dea di suonarlo. Atena accettò di buon grado, la musica era meravigliosa però Era e Afrodite si misero a ridere. Vi immaginate Atena come reagì nel vedere le due dee ridere di Lei? Come una furia lasciò il banchetto e prese a girare tra i boschi. Raggiunto un laghetto si sedette e si mise a suonare. Mentre suonava il suo sguardo si posò sulle acque e subito capì perché l’avevano derisa: per suonare il flauto le sue gote si gonfiavano e si riempivano di rossore. Il suo viso perfetto veniva deformato dal suonare quello strumento. Stizzita gettò a terra il flauto e ritornò sull’Olimpo. Io, il satiro Marsia, ebbi la sfortuna di trovarlo e incuriosito provai a suonarlo. Dopo vari tentativi la musica incominciò a diffondersi nella aria e le ninfe rimasero incantate dal suono melodioso che il flauto produceva. Vi confesso che ho dedicato molto tempo a quello strumento ma giorno dopo giorno diventai sempre più bravo e la musica si diffondeva melodiosa nei boschi. Gli uccelli smettevano di cantare, le bestie venivano ad ascoltare, il vento smetteva di soffiare, le fiere si ammansivano, le ninfe mi donavano baci e carezze dopo ogni esibizione. Ma quando si diffuse la voce che un satiro suonava melodie meravigliose gli umani presero a venire nel bosco per ascoltarmi, e maledetti loro, incominciarono a dire che suonavo meglio di Apollo, che la mia musica era divina e che rendeva reali i loro sogni. Io nella mia infinita superbia non smentii le loro parole, anzi credetti alle loro lodi e vi confesso, che sono ancora convinto di suonare meglio del dio. Apollo, saputa la cosa, venne sulla terra e mi sfidò in una gara musicale. Invece di rifiutare dichiarandomi subito sconfitto, accettai la sfida. Sfidare un Dio! Ma come ho potuto essere così superbo! Apollo dichiarò che se avessi vinto mi avrebbe portato sull’Olimpo innalzandomi al rango di dio, mentre se la vittoria fosse toccata a Lui avrebbe potuto fare di me ciò che voleva. Apollo decise che le Muse avrebbero decretato il vincitore. Suonai in maniera incantevole. Il suono della canna perforata raggiunse il sole colorò i sogni, le acque del fiume smisero di scorrere per ascoltare la mia musica, le nuvole scomparvero, la foresta tremò di gioia, le muse rapite gridarono il loro amore. Ma non uscii vincitore dalla sfida perché Apollo con la lira suonò in maniera celestiale, la sua musica si trasformò in magia e un incantesimo avvolse la terra. Le Muse non vollero decretare un vincitore. La sfida era finita in parità. Naturalmente Apollo non accettò il verdetto e decretò che ci sarebbe stata una seconda prova dove, oltre al suonare, i contendenti potevano anche cantare. IL mio destino era segnato, non poteva che essere Lui il vincitore. Non potevo suonare e cantare contemporaneamente con il mio flauto, mentre Lui accompagnò la musica della sua lira con un canto così soave da far piangere il cielo, e le orecchie delle ninfe e le orecchie dei satiri ascoltavano e nutrivano il suono e i petali dei fiori cambiarono di colore. Venni scorticato e a niente servirono i pianti delle ninfe, dei satiri, e dei fauni che chiedevano pietà al Dio. Dalle loro lacrime nacque il fiume che ora ha il mio nome: Marsia. Se passate presso il fiume percepirete la musicalità delle sue acque. E’ quello che rimane del mio corpo che produce queste note cristalline. Così volle il fato.

il salto dei covoni

L’erba nei prati è alta. Il candore bianco che ha coperto per mesi il mio paese è diventato un verde intenso, costellato di fiori dai colori vivaci. Stiamo pranzando e mia madre mi chiede di andare nei prati, prima che le erbe vengano tagliate, a raccogliere semi di cumino. E’ il periodo della raccolta dei semi per preparare il Kummel. Costeggio il prato per non calpestare l’erba. Accarezzo quel verde, ammiro i colori, sento i profumi. Trovo facilmente piante di cumino in quanto hanno una infiorescenza ombrelliforme con tanti fiorellini bianchi e raccolgo molti semi. Per l’inverno mia madre agli ospiti potrà offrire oltre che il genepy e il serpillo anche il kummel. Il prato si arrampica sulla montagna.  La cosa che mi affascina di più guardando quel mare colorato di verde, di giallo, di arancione e di azzurro è il pensare che fra qualche giorno arriveranno uomini e donne e incominceranno a tagliare con una lunga falce l’erba. E’ un lavoro metodico, gli uomini avanzano salendo su per i prati e in maniera ritmica con ampi movimenti delle braccia alzano e abbassano la falce, uguale a quella che tiene tra le mani la Morte nei quadri, e l’erba tagliata alla base si ammassa al suolo. La falce nelle mani dei contadini fa pensare alla morte ma qui si tratta di vita. L’erba viene fatta seccare sul prato e poi accumulata in grossi covoni e in seguito portata a spalle nel fienile. L’inverno sarà dolce per le mucche che avranno cibo a volontà. Nella semi-oscurità della stalla il profumo del fieno farà loro ricordare l’estate, gli alpeggi, la libertà, le lotte per stabilire chi è la regina e ha quindi il diritto di guidare le altre nei pascoli alti. Ma a noi ragazzi quel prato ha un significato più profondo in quanto rappresenta il punto di incontro dei primi amori. Infatti passato qualche giorno dal taglio dell’erba, i contadini con grandi rastrelli la accumulano creando dei piccoli covoni di fieno alti circa un metro. Le donne faranno meno fatica a caricare, su appositi legni, il fieno per portarlo nei fienili nei giorni successivi. Quei covoni nei campi sono per noi ragazzi una magia. Nella notte si invita la ragazza che ti fa battere forte il cuore a fare una passeggiata lungo il sentiero che costeggia il prato. Si scherza ci si tiene per mano ma arrivati sulla sommità della collina e ascoltato per un attimo il canto del silenzio, si incomincia a correre verso valle a perdifiato; e mano nella mano si saltano i covoni. Naturalmente molti covoni vengono disfatti e immaginiamo già le urla dei contadini, le sgridate delle nostre mamme, ma con nella voce un fondo di invidia perché a loro non è più permesso di farlo. Ma dopo l’ultimo covone ci si lascia cadere nel fieno, gli occhi negli occhi, i fiordalisi sulla fronte della ragazza e le tue labbra subito che cercano le sue. La notte sui campi ti culla, percepisci Il profumo dell’erba, il profumo della ragazza, il battito forte del cuore e la luna, le stelle riempiono la tua mente e ti sembra di essere in paradiso. Anzi sei in paradiso, sei un signore grande che ha il mondo nelle mani, hai volato, hai pensato, hai baciato, hai provato a diventare adulto. E sai che il gioco dell’amore continuerà dopo quando il fieno verrà portato nei fienili per farlo seccare completamente e per stoccarlo. Li il giocare toccherà vette alte di ebbrezza: si va con le ragazze nel fienile si sale al piano superiore dove ci sono le balle di paglia e poi si salta giù nel fieno. E’ un grande tuffo sembra di tuffarsi nel mare, si affonda in quel morbido cuscino e subito dopo si cerca la compagna per un gioco condotto senza conoscere le regole con l’infinita ignoranza di cosa si deve fare. Non solo le labbra accarezzeranno altre labbra ma anche le mani proveranno piaceri strani, sentirai il vento nel tuo cuore e diventerai per qualche attimo il signore del creato. Non stelle in cielo, ma occhi da fissare, pelle bianca da accarezzare, provare il gioco sottile dei sentimenti, è una metamorfosi la tua e niente sarà più importante di questo nella tua vita, sei come la farfalla che esce splendente dal bozzolo e felice vola. A casa La mamma capirà tutto, perché il tuo maglione ha frammenti di fieno e sarà un po’ triste al pensiero di questo figlio che cresce. Questo mondo è bellissimo.

Ghigo di Praly, giugno 1966                                         Enrico garrou

Anni fa tutto accadeva in armonia con la natura. Adesso il mio mondo è cambiato. Per questo scrivo quanto ricordo della mia infanzia come testimonianza di un tempo finito.

Il mio nome è Ruggero, Ruggero Bacone.

Il mio nome è Ruggero, Ruggero Bacone. Sono un frate francescano e mi trovo imprigionato in questa fredda cella per una accusa ingiusta, malvagia. Persone del mio stesso Ordine mi hanno accusato di stregoneria. Era verso sera, le ombre si allungavano sul pavimento a Oxford, stavo raccontando ai miei studenti del pensiero di Aristotele, del perché un oggetto tenda ad evolversi in un certo modo e non diversamente. E tra di me pensavo che il maestro era mal tradotto e ignorato dalla chiesa, quando entrarono nell’aula due dignitari e guardie armate e mi invitarono ad uscire. Sono stato condotto in questo edificio e rinchiuso in questa stanza fredda, con un letto e un buiolo. Mi portano regolarmente da mangiare, non patisco il freddo dell’inverno e sono riparato dalla neve che sta cadendo. Non mi hanno rinchiuso in una cella delle prigioni reali, dove sarei morto in poco tempo, per il mio stato di ecclesiastico. L’accusa di stregoneria o meglio l’accusa di diffusione di idee dell’alchimia araba è una accusa infame. Non sono uno stregone, ho solo approfondito studi sulle scienze naturali. Le menti del mio tempo credono che in natura tutto avviene per grazia di Dio o in sottordine per ordine dell’Imperatore, e la potenza e la grazia divina si sviluppano attraverso il miracolo. Non sono forse miracoli, gridano nelle chiese i teologi: il fulmine che incendia le case, la pioggia, la neve o il sorgere del sole, o la guarigione di un ammalato? Le masse del popolo sono bramose di miracoli e i miracoli da contemplare non sono mai abbastanza. Io francescano credo profondamente in Dio creatore ma sono convinto della verità di Giovanni de Dondi che scrive che in ogni cosa della natura esistono fatti meravigliosi che non sono miracoli ma superbi fenomeni che l’uomo con il suo intelletto e pensiero può studiare. Ecco perché, io Ruggero, credo fermamente in Aristotele e Alla sua esperienza. Lui afferma che l’uomo è quotidianamente circondato dai miracoli ma se acquistiamo familiarità con essi molte cose perdono l’aspetto meraviglioso, miracoloso e incomprensibile, diventando fenomeni spiegabili. E cosi non ci spaventiamo più, possiamo cercare di spiegare le cose. Ma perchè è così terribile studiare e capire la natura e i suoi miracoli? Quelli che mi hanno imprigionato ricercano quotidianamente i miracoli, sfruttano i miracoli inventati, non per studiarli ma per usarli e così ingannare il popolo e procurare denaro per le loro chiese.

E’ vero che ho cercato un a pozione per rendere immortale l’uomo, questo lo confesso, ma scusate se i serpenti i cervi e le aquile prolungano la loro vita con erbe e pietre perché non possiamo studiare questi fenomeni per aiutare l’uomo? Ma non voglio raccontare o parlare con i miei confratelli del mio pensiero perché altrimenti verrei subito mandato al rogo. Nel futuro dell’uomo vedo che si arriverà a costruire macchine capaci di spingere grandi navi molto più veloci di quelle spinte dai rematori e bisognose solo di un pilota chele diriga. Arriveremo a imprimere ai carri incredibili velocità senza l’aiuto di alcun animale. Arriveremo a costruire macchine alate capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli. Questa è la mia visione. Mentre faccio questi ragionamenti sento delle voci allegre fuori dalle mura che mi imprigionano. Mi affaccio alla finestra della stanza e capisco il perché di questa allegria. Nobili dame e nobili signori stanno giocando e si lanciano palle di neve. Il manto nevoso copre la campagna e abbellisce le piante. Le nubi si stanno diradando e si intravede il sole. Le palle volano in cielo e poi si abbassano. La terra è rotonda come la palla di neve che quella donna riccamente vestita sta tirando al signore. Il mio maestro Aristotele scrive e dimostra che la terra è rotonda ma quasi tutti affermano che invece è piatta. Questo è ignoranza, quasi tutti i religiosi non vogliono conoscere la verità e preferiscono il racconto e la leggenda, alla filosofia e alla conoscenza. Ma il mio sguardo è sempre più attratto dalle palle di neve che volano in cielo e improvvisamente penso: e se la terra non fosse immobile al centro del cielo ma ruotasse intorno al sole? No, non posso pensare a questa cosa, certe volte la mia mente esagera nelle sue visioni. Questo si che è un pensiero che, se rivelato, porta alla morte. Meglio guardare il gioco dei nobili e gustarsi la vita che scorre.

Torino 16 marzo 2014                                                                          Enrico garrou

Questo racconto nasce dopo aver visto questo quadretto nella vetrina di un antiquario a Bressanone. Sono rimasto colpito a pensare che nel medioevo si giocasse con le palle di neve. Ma è vero che il gioco è nato con l’uomo.

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Nascita della ninfa Anthea

L’incantatore pazzo, signore dei sogni e delle follie, un giorno, non sopportando il peso della solitudine si recò nella foresta incantata ed incominciò a fare mirabilie. Vennero I tassi e gli scoiattoli, vennero i cinghiali e gli ermellini, vennero i carabi signori della terra, vennero i serpenti capaci di grandi desideri, per osservare le sue follie. Lui fece cadere il rosso nel blu del cielo, rese trasparente il profumo dei fiori e costruì un altare di cristallo nel mezzo della radura. Subito arrivò il vento sul suo carro incantato, piegò le piante, si infilò nelle fessure, svegliò gnomi e fate e sibilando chiese a cosa serviva l’altare. L’incantatore spiegò che l’altare era per una ninfa così bella, ma così bella da offuscare il sole. Rise forte il vento e tutta la valle tremò, ma l’incantatore continuò il suo sogno. Venne il pastore della foresta ed ebbe la stessa risposta. Se ne andò borbottando, chinandosi ogni tanto per accarezzare i piccoli pini che crescevano, per sussurrare parole d’amore ai muschi, per parlare di sole alle foglie. Passarono i giorni, i mesi, e l’incantatore era sempre lì, fermo vicino all’altare con i piedi affondati nel terreno, i vestiti marci di pioggia, le membra secche come i rami degli alberi, santo in una foresta di santi, vibrante di magia, sudato come il peccato.

 Lei si autocreò rubando il pensiero che giorno dopo giorno le veniva srotolato dal sogno, succhiando l’amore che l’incantatore le donava. Bella, morbida come i desideri, leggera come le piume, stupita come le montagne, con la pelle bianca come la neve, gli occhi colorati come i boschi, i capelli pieni del nero del cielo, stellata come una calda estate. L’incantatore sorrise, l’aiutò a scendere dall’altare e le mostrò il creato. Ogni personaggio della foresta rimase incantato e lodò l’incantatore per quanto aveva creato. Le fate aumentarono il loro chiaccherio ammirate; i serpenti le vollero donare subito il frutto del peccato, gli gnomi cercarono sulla luna una pietra preziosa per farne un anello da metterle al dito, il pastore dei boschi le donò un vestito raffinato fatto con i licheni, il vento le portò il fruscio sottile dell’innocenza e le piante fecero una danza per coprire di riso le sue labbra. Ma il sole, il sole rosso d’amore, la volle tutta per se e afferratala per i capelli la portò sul suo carro e fuggì.

L’incantatore pianse forte e la sua malinconia era così grande che i fiori non aprivano più i petali e le farfalle non volevano più volare. Ogni mattina supplicava il sole di restituirle la ninfa ma questi era irremovibile e con la bella al fianco, si alzava in cielo sul suo carro d’oro.

Per giorni e giorni l’incantatore pazzo combattè contro i ricordi, contro le ossessioni, uccise i colori negativi, si avviluppò in quelli positivi, pianse, gridò e alla fine seppe. Uscì dal torpore gridò la sua gioia e incominciò a preparare l’incantesimo. Cancellò con spugne d’oro le stelle e la luna e creò un buio feroce che imprigionò il sole e così potè salire sul suo carro e riprendere il frutto del suo amore. Pianse il sole, pianse e chiese perdono all’incantatore. Gli fu concesso il perdono e il buio svanì. Le piante ripresero a parlare, gli animali a giocare, gli uomini a lavorare.

Lui porto la ninfa nella radura la baciò, le disse parole d’amore e entrambi non capirono più dove fosse il cielo e la terra, quale fosse il bene e il male, l’albero dell’amore coprì il cielo, alcune stelle caddero, il mare urlò forte e il vento fece crollare diverse montagne. La bella seppe di essere amata, seppe che l’incantatore era la sua vita e si addormentò felice.

Torino 6/3 /2014

Le ninfe erano bellissime ragazze che si dice terrorizzavano i viandanti che attraversavano i boschi. Ma alcune erano ninfe “buone” e donavano protezione e passione ai forestieri. Le più famose erano Callisto e la sorella Anthea. Il 23-3-1987 avevo scritto una poesia su un incontro tra la ninfa Anthea e un sognatore. Ho ripreso questa poesia e l’ho rivisitata per raccontare questa storia d’amore. E’ nato questo racconto giocato molto sulla musicalità delle parole in onore di Anthea.

Fiaba

C’era una volta un sognatore che si innamorò perdutamente di una donna bellissima che aveva incontrato in uno dei suoi mille sogni. L’incontro era avvenuto sulle rive di un lago circondato da montagne ricoperte di neve e con due paesi collegati da un ponte coperto. Lei era vestita di bianco e dava da mangiare a dei cigni e dopo averlo salutato e gli aveva chiesto se anche a lui piacevano gli animali. “Ma certo, disse l’uomo, amo follemente i cigni” e lei gli diede del pane da gettare a quei bellissimi volatili. Presero a parlare piacevolmente della neve sulle montagne, che contrastava con il verde del prato e il blu dell’acqua del lago, ma ecco che improvvisamente emerse, circondato da spruzzi d’acqua, un uomo nudo, alto, molto bello ma spettrale che prese a gridare e a gesticolare mentre si avvicinava alla riva e tutti i cigni volarono via. L’uomo sempre borbottando si rituffò nel lago e scomparve alla vista dei due. La donna sembrava molto turbata e spaventata e il sognatore allora la prese per mano, la tranquillizzò e la accompagnò sul ponte dove ripresero a chiaccherare; lei parlava dell’amore per i candidi cigni e lui la ascoltava rapito. Ad un certo punto la donna gli mise le mani sulle guance e gli diede un bacio. L’uomo era felice la abbracciò e si misero a ballare facendo scricchiolare le assi del ponte. Dopo il ballo però, lei divenne leggera e il suo corpo prese a svanire fino a sparire. L’uomo pianse disperato e si svegliò coperto di sudore. La sera dopo cercò di ripetere il sogno si ritrovò sul prato dove erano spuntate piccole margherite bianche, delle viole, i cigni e il lago, ma lei non c’era. La cosa si ripetè per diverse notti e il sognatore era sempre più disperato ma una notte le apparve di schiena, vide i suoi capelli neri e il suo cuore prese a battere più forte. “Ciao, Ti ricordi di me?” chiese l’uomo. “Si mi ricordo benissimo di Te ma noi due non dobbiamo più incontrarci” disse la donna. “Perché” chiese con tristezza il sognatore. “Sai” disse la donna “l’uomo che esce dal lago è un mio spasimante, morto per conquistarmi e adesso mi tiene imprigionata in questo mondo”. Ma è una storia triste e non voglio annoiarti. L’uomo La supplicò di raccontargli tutto e lei senza guardarlo negli occhi parlò: “Anni fa, mio padre, Signore di questi luoghi, voleva assolutamente che mi sposassi ma io dicevo sempre di no a tutti i cavalieri che mi venivano presentati. Un giorno sfinita per le sue insistenze gli dissi, sapendo che era una cosa impossibile, che avrei sposato colui che fosse riuscito, cavalcando un montone, ad attraversare il lago da una sponda all’altra. Mio padre fece emettere subito il bando dove c’era scritto che colui che avesse attraversato il lago sulla groppa di un montone avrebbe ricevuto come premio la mano di sua figlia. Il giorno della sfida, fin dal primo mattino, un folla enorme si era riversata sulle rive del lago. E naturalmente c’erano i poeti, giocolieri, i cantori che cantavano storie d’amore, i narratori di prodigi, i saltimbanchi gli affabulatori, i falconieri, i ladri, gli imbonitori i maghi. I nobili dei due paesi presero posto su una tribuna in legno, e poi arrivarono e vennero presentati tra le grida di gioia del pubblico, i pretendenti: principi, baroni, nobili e anche qualche signorotto del posto e la gara ebbe inizio”.  La donna continuò “Come puoi immaginare cavalcare un montone è una cosa difficilissima, pensa fargli attraversare un lago con in groppa un uomo. Molti, fatti pochi metri, caddero disarcionati nelle acque fredde del lago e furono tratti a riva tutti intirizziti, qualcuno riuscì a percorrere più metri ma alla fine il freddo faceva barcollare il montone e il cavaliere scivolava in acqua mettendo fine alla sua tenzone”.  La donna abbassò il tono della voce “Per ultimo, annunciato da un corvo, arrivò un signore giovane, alto, bello, vestito con giacca e pantaloni di velluto nero, capelli neri, ti confesso che sul momento fui colpita dalla sua bellezza, dal suo incedere, dalla sua sicurezza, anche se era silenzioso e un po’ sinistro, nella destra una corda al cui capo era legato un montone grandissimo, dal vello immacolato e folto, che accettò la sfida lanciata da mio padre. Il montone si mantenne calmo quando il cavaliere lo montò e assieme si avviarono nelle acque del lago. L’entrata in acqua fu lenta e sicura, e il montone prese a nuotare con forza senza scrolloni, guidato magistralmente dal giovane signore. La gente incitava a gran voce, e le donne gridavano perché già innamorate di quel signore. A metà lago la gente era ipnotizzata dall’incedere sicuro del montone e la folla ne era estasiata. Insomma riuscì a raggiungere la riva e fu portato in trionfo fin da mio padre che lo dichiarò vincitore. Il fato mi aveva dato uno sposo. Non sapevo chi era: se era un dolce compagno, se era un tenero amante o un cattivo e violento padrone, ma così aveva voluto il destino. Aveva un difetto però che divenne evidente ai miei occhi quando, vantandosi davanti alle dame, disse che avrebbe ripetuto la prova. Le urla raggiunsero il cielo, i nobili gridarono che non avevano mai visto uomo più coraggioso i preti gridarono al miracolo, le donne piansero al pensiero che qualcosa poteva succedere al loro eroe. Il cavaliere e il montone si lanciarono nelle acque, avviluppati dal calore del popolo. Non ti sto a raccontare cosa pensai della follia di quel uomo e infatti a metà esatta del lago, come un segno del destino, il freddo bloccò le agili ma ormai stanche zampe del montone facendolo inabissare lentamente tra le acque del lago, trascinando nella morte anche il mio futuro sposo. Il silenzio cadde di colpo e si riuscì a percepire solo alcune parole del giovane: “Principessa tu sei mia e di nessun altro!”.  Era vero, forse lui era un mago, perchè un sortilegio grandissimo cadde sul mio bellissimo paese, la gente scomparve così come  la mia famiglia, i nobili, i poeti, le dame, le donne del popolo, i bambini, gli infermi, tutti. Rimasi sola qui sulle rive di questo lago. E da molti anni che sono quaggiù , ogni tanto mi viene a trovare qualcuno capace di sognare, ma fugge subito spaventato dall’uomo del lago. Se porgi lo sguardo vedrai una macchia bianca sul fondo: è lui e il montone, monumento alla sua follia”. Rimasi senza parole, i miei occhi si riempirono di lacrime perché non sapevo come liberare dall’incantesimo la mia dama. Gli raccontai del mio amore per lei, del mio volere liberarla, a costo della mia vita, da quel sortilegio. Lei allora fissandomi con i suoi dolcissimi occhi disse: “sai perché non volevo sposare nessuno? Perché ti aspettavo. Non sapevo se avrei incontrato un uomo alto o piccolo, bello o brutto, ma sapevo che saresti arrivato magari dopo un giorno o dopo mille anni, sapevo che le tue parole sarebbero state per me miele, sentivo le tue labbra morbide come genziane sulle mie, le tue mani farfalle sul mio viso, sul mio corpo, sul mio domani. Assieme ci saremmo scambiati desideri, profezie, racconti, incantesimi d’amore, cose tristi e cose allegre, insomma noi ci saremmo scambiati emozioni. Ma se tu mi vuoi devi vincere l’uomo del lago, sfidarlo ma è un’impresa impossibile come andare da una sponda all’altra del lago per due volte cavalcando un montone.” L’uomo era affranto ma percepì che la sua vita non avrebbe più avuto uno scopo senza la bellissima dama e allora si alzò in piedi si avvicinò al lago e dalla riva prese a sfidare il rivale. Il sognatore gridava fortissimo ma tutto taceva. All’improvviso un fulmine solcò il cielo, le acque crearono un vortice, davanti all’uomo si spalancò un pozzo profondo e Lui si ritrovò a volare dentro a quel buco senza fine. Scese fino ai confini della sua immaginazione e si ritrovò in un prato illuminato da un pallido cielo: un ragno enorme, crudele nel suo velluto di morte, lo assalì. Il sognatore prese a combattere: la paura stringeva il suo cuore, ormai il mostro era sopra di lui, ma il suo grido silenzioso fu ascoltato. Nelle mani stringeva una lancia argentata e il mostro fu ucciso. Ma ecco apparire l’uomo con le sembianze del toro. Il sognatore combattè contro i ricordi, contro le ossessioni, uccise i colori negativi, si avviluppò in quelli positivi, pianse, gridò e finalmente l’uomo scomparve. Il rosario del tempo fu sgranato mille volte ma alla fine il sognatore riprese a salire verso la superficie del lago. Il rivale era stato sconfitto. Uscì dall’acqua, abbracciò la donna, si sdraiò sul prato e si addormentò stremato. Quando riaprì gli occhi era nel suo letto e la sua mano sfiorò il corpo che riposava accanto a lui e capì che sarebbe stato per sempre felice.

Torino 4 marzo 2014

Ho scritto questa fiaba riallacciandomi alle storie che si tramandavano a Ghigo di Prali, in modo particolare a quella che narra la storia del perchè in un lago (Noi lo chiamiamo lago dell’uomo) si intravede sotto la superfice dell’acqua una massa biancaCigni (2)

storia di un ricordo

 

Ricordi amore,

tutto è incominciato per colpa della mia mano

che si è posata, uccellino impazzito ,

sul tuo braccio.

Il tempo si era fermato nella mia mano.

pietre preziose furono create,

 semi germogliarono ,

e nuvole danzarono in cielo.

Il mio sguardo ha indugiato sulla tua pelle,

sul corallo delle tue labbra,

sulla linea perfetta del tuo naso.

Ma è stato il tuo profumo che mi ha afferrato

E fatto si che le nostre labbra si sfiorassero.

Profumo di bosco, di legno,

di acqua che scorre, profumo di neve, di mele, di sole.

Io non volevo, ma i tuoi occhi ridevano, e mi sfidavano,

mi invogliavano ad accarezzarti

e  il tuo profumo ha liberato l’amore

che riposava nelle mie mani.

E così ho cercato parole sulla tua pelle,

mi sono cullato nelle tue fragranze,

 ho percorso prati di viole in una estate che stava per arrivare.

Le tue ciglia mi hanno solleticato

e pensieri che non conoscevo sono stati liberati.

Non è stata colpa mia. Sai dopo ho mandato i miei guerrieri

A cancellare ogni traccia di peccato.

Non è stata colpa mia,

ma il leggero volare del tuo sguardo

e quel tuo profumo che mi ha  incantato .